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10 modi di dire fiorentini che dovresti conoscere

Tra storia e leggenda, ecco le origini delle espressioni fiorentine più curiose che potreste sentire nel capoluogo toscano

Dopo le espressioni inventate da Dante Alighieri ancora in uso e le parole più peculiari del vernacolo, vi raccontiamo le origini delle espressioni fiorentine più curiose che potreste sentire nel capoluogo toscano.

1) "Sei un bischero!"

Nonostante l'incerta etimologia, è indubbio che il termine "bischero" tragga le sue origini dal nome di un'antica famiglia fiorentina. Le prime notizie sui Bischeri risalgono addirittura al XII secolo: tra le più ricche di tutta Firenze, la casata aveva numerosi possedimenti nella zona tra via dell'Oriuolo e piazza del Duomo, esattamente a quell'incrocio che ancora oggi porta il nome di “Canto dei Bischeri”.

Si racconta che questi signorotti avessero la maggior parte delle proprietà esattamente nel punto in cui, verso il 1294, la Repubblica Fiorentina cominciò a progettare la costruzione del Duomo. Il governo, al fine di acquistare i possedimenti e liberare così la zona, offrì alla casata un'ingente somma di denaro. 

Non volendo cedere sul prezzo, i Bischeri rifiutarono l'offerta: il governo però, stanco delle lunghe trattative, decise di espropriare tutti i possedimenti, per poi risarcire la casata fiorentina con pochi soldi d'indennizzo. Un'altra celebre versione riporta invece che fu un incendio a distruggere completamente la zona, lasciando la facoltosa famiglia, che fino ad allora aveva rifiutato di cedere alle richieste del governo, senza il becco di un quattrino.

Comunque sia andata, le cronache del tempo riportano che i Bischeri furono costretti a lasciare la città, per poi farvi ritorno soltanto nel '500 e dopo aver mutato il loro cognome in Guadagni. Il vecchio nome della casata era ormai bollato d'infamia: ed è da allora che in tutta la regione il termine “bischero”, sebbene spesso usato affettuosamente, indica una persona poco furba e profondamente ingenua. 

2) "Non avere il becco di un quattrino"

Espressione ormai diffusa nella lingua italiana, ma che affonda le origini nella storia di Firenze. La parola “becco” è usata come rafforzativo che sottolinea la scarsità di quantità (e può significare, riferendosi ad un marito o fidanzato, tradito e dileggiato). 

Tale definizione è confermata dalle note scritte da Paolo Minucci su ordine di Leopoldo de’ Medici, per spiegare le espressioni idiomatiche tratte dal linguaggio popolare toscano, del poema eroicomico di ambiente cavalleresco “Malmantile” di L. Lippi. Tra queste note, pubblicate tra il 1688 e 1750, ne compare una che afferma: “quella parola becco si mette a maggiore espressione”.

Il “quattrino”, invece, era una moneta in rame del Granducato di Toscana e di altri stati italiani fino al XVII secolo. Aveva il valore di quattro (da cui il nome) pìccioli (ovvero piccoli denari). Tre quattrini formavano un soldo, mentre in Toscana 5 quattrini formavano una crazia: moneta coniata dai granduchi a partire da Cosimo I, fu imitata dai duchi d’Urbino nella zecca di Pesaro.

3) "Essere / finire col culo per terra"

Un'espressione comune anche in italiano, ma che ha origini tutte fiorentine, legate in particolare alla “pietra dello scandalo o dell’acculata”: una pietra di forma rotonda e bicolore, che si trova al centro della loggia del Porcellino all’incrocio tra via Calimala e via Porta Rossa.

Questa pietra riproduce a grandezza naturale una delle ruote del Carroccio, simbolo della Repubblica fiorentina, sul quale veniva issato il gonfalone della città. Sulla pietra veniva fatto posizionare il Carroccio introno a cui le truppe fiorentine si riunivano prima di partire per una battaglia.

La pietra, però, aveva anche un'altra funzione: era il punto in cui venivano puniti i debitori morosi nella Firenze rinascimentale. La punizione consisteva nell'incatenare i "condannati" e una volta “calate le braghe” ne venivano battute le natiche ripetutamente sulla pietra, secondo l'acculata. Da questa usanza umiliante potrebbero essere nati modi di dire popolari come "essere con il culo a terra" e, forse, l'espressione "sculo", inteso come sfortuna.

4) "Uscio e bottega"

Un detto legato alla storia della città e alla lunga tradizione delle sue botteghe artigiane. Le antiche botteghe fiorentine ricordavano nella forma quelle romane: sotto un grande arco ricavato dalla parete dell’edificio si affacciava una sorta di bancone, dove avvenivano le trattative di compravendita e la merce veniva acquistata dai numerosi clienti.

La merce era conservata all’interno del negozio e non sempre il cliente veniva fatto entrare all’interno del locale, restando piuttosto al di là del bancone, lungo la pubblica via. L’eccezione veniva fatta per gli acquirenti più facoltosi, che magari avevano la necessità di esaminare i prodotti che erano sul punto di comprare.

Proprio di fianco al bancone si trovava l’ingresso del negozio, solitamente posizionato sul lato sinistro oppure al centro. Questa entrata corrispondeva anche all’ingresso nell’abitazione del commerciante, che spesso aveva la casa proprio nel retrobottega.  L’uscio di casa coincideva così con la porta d’ingresso del negozio, una disposizione che ha dato origine alla curiosa espressione “uscio e bottega” per indicare che il luogo di lavoro e l’abitazione costituivano nell’antica Firenze un tutt’uno.

5) "Essere alle porte co' sassi"

Un'espressione che si usa quando ci si trova in forte ritardo, che trae origine dall'antica fortificazione di Firenze. Ai tempi in cui la città era ancora racchiusa e protetta dalle mura, le porte costituivano le uniche vie di accesso e di uscita. 

Ogni sera queste porte d'accesso venivano chiuse, al fine di proteggere la città da eventuali attacchi esterni che avrebbero potuto verificarsi durante la notte. Spesso succedeva che qualche ritardatario, per evitare di restare chiuso fuori dalla città, era solito lanciare sassi contro i portoni, al fine di segnalare la sua presenza e far ritardare alla sentinella la chiusura definitiva. Da allora "essere alle porte co' sassi" significa appunto ridursi all'ultimo minuto. 

6) " Il culo e le quarant'ore"

Usata ancora oggi, la colorita espressione “c’entra come il culo e le quarant’ore” indica una cosa o una situazione che non ha nulla a che vedere con un’altra, molto simile al motto “ci sta come il cavolo a merenda”. 

Le origini del detto sembrano molto antiche, tanto che persino il luogo in cui ebbe origine costituisce ancora oggetto di discussione. Le quaranta ore erano delle funzioni religiose che consistevano nell’esposizione del Santissimo Sacramento in ogni chiesa fiorentina, secondo una serie di pratici turni per una durata complessiva di quaranta ore consecutive. 

Si racconta che durante l’esposizione del Sacramento in una delle chiese più piccole della città, forse quella dei Santi Apostoli Pietro e Paolo nella piazzetta del Limbo, si verificò l’episodio che dette origine al celebre detto. Sembra che la solenne funzione venne interrotta da una donna che, sentendosi palpeggiare, cominciò a prendere a schiaffi un malcapitato signore alle sue spalle. 

L’uomo, visibilmente imbarazzato, provò a giustificarsi, dicendo che il gesto inopportuno era stato causato dalla ressa che era venuta a crearsi per via delle quaranta ore. La donna, stizzita, gli rispose per le rime: “O cosa c’entra il culo con le quarant’ore?”. Una battuta talmente pronta e dissacrante da entrare nella storia. 

7) "Reggere il moccolo"

Espressione usata anche in italiano, ma dalle origini fiorentine. Una parte dell'antico percorso della Firenze fortificata è costituita da via Calimala, che partendo da Piazza della Repubblica si dirige verso l’antica Por Santa Maria. Per secoli fu una delle vie più importanti di Firenze, in quanto principale via d’uscita dalla città in direzione Ponte Vecchio e dunque verso Roma, utilizzata da commercianti, pellegrini e contadini per accedere alla Porta di Santa Maria.  

Sebbene incerta, l’etimologia del nome deriverebbe dall’unione della parola greca “callis”, ovvero strada, e quella latina “mala”, traducibile come accidentata, malsana. Secondo alcune interpretazioni, il termine “mala” poteva far riferimento a molteplici aspetti dell’antica via. Considerando la direzione verso l’Arno, è molto probabile che la strada fosse spesso impantanata e maleodorante a causa dei fanghi che i passanti si portavano dietro dal fiume, all’epoca privo di argini. 

Il termine poteva riferirsi anche al fatto che la via, molto trafficata, veniva puntualmente deturpata dal passaggio continuo di carri, che a causa delle ruote pesanti segnavano il pavimento. Infine, forse “mala” era riferito alle persone poco raccomandabili che la frequentavano, dai ladri che adescavano i commercianti di passaggio fino alle prostitute in cerca di un cliente da abbordare. Durante la notte infatti le tenutarie dei bordelli erano solite illuminare le loro ragazze con dei piccoli lumi, al fine di mostrare al meglio la loro bellezza agli uomini di passaggio. Questa usanza, molto diffusa in via Calimala, dette origine all’espressione “reggere il moccolo”, con cui si indica una persona di troppo. 

8) "Troppa grazia, Sant'Antonio!"

Anche Firenze ha il suo Sant’Antonio, un uomo a cui è legata l’origine di un famosissimo detto. Dopo aver fondato il Convento di San Marco e l’associazione dei Bonomini di San Martino, Antonio Pirozzi divenne Vescovo di Firenze intorno alla metà del XII secolo. Meglio conosciuto come “Antonino” per via della sua esile corporatura, fu uno degli uomini di chiesa più amati di sempre.

La sua residenza era situata in una palazzina in via dello Studio, come ricorda ancora oggi una effige in marmo sulla facciata, dove era solito ricevere i cittadini che gli si rivolgevano per chiedere aiuto spirituale, tanto da essere presto ribattezzato come “Antonino dei consigli”. Si racconta che Dante Pitti e sua moglie Marietta non riuscissero ad avere figli e per questo motivo si rivolsero all’amatissimo vescovo. Poco dopo essere stati ricevuti dal Santo, la coppia si trovò in attesa del primo figlio, a cui dettero il nome Guido. 

La grazia di Sant’Antonio però non si limitò a dar loro un unico erede: nel giro di pochi anni infatti, la donna partorì ben sei figli. Di fronte alla storia dei due coniugi, sconcertati e interdetti da questa prole così numerosa e improvvisa, il popolo fiorentino coniò il celebre motto giunto fino ai giorni nostri: “Troppa grazia, Sant’Antonio!”.

9) "Fare un giro pesca"

Espressione tutta toscana, “fare un giro pesca” si usa per indicare un percorso che viene allungato inutilmente. Un giro tortuoso, complicato, lunghissimo e inutile, poiché poteva essere evitato. 

Come riporta Lapucci, questo modo di dire avrebbe il significato generale di "fare un cammino inutile ritrovandosi al punto di partenza, un giro di poco senso, che fa perdere solo tempo". 

Per estensione indicherebbe anche un modo di agire poco chiaro, scarsamente cristallino, dunque disonesto e ingarbugliato. Renzo Cantagalli nella sua “Guida ai detti fiorentini” (1972) aggiunge infatti anche il senso di "affare poco chiaro, non troppo corretto".

Alcune ipotesi collegherebbero questa curiosa espressione toscana al significato del verbo pescare, da intendere nel suo significato di “prendere a caso/tirare a sorte”. Fare un giro pesca significherebbe quindi mettersi in movimento nella speranza di "pescare" (ovvero imboccare per caso) la strada giusta, cercando di indovinare la direzione da prendere pur non conoscendola. 

Un giro “vattelappesca”, espressione di tipo dialettale da "vattelo a pescare", che in italiano esprime appunto incertezza, dubbio, ignoranza assoluta. Un’altra spiegazione ci viene poi fornita sempre da Lapucci, secondo cui l’origine del termine deriverebbe "dalla ruota della pesca, alla quale nelle fiere si dava un giro (una spinta) per sorteggiare uno dei numeri segnati sopra il cerchio".

In generale quindi l’associazione con la pesca appare abbastanza plausibile, in quanto il pescatore è solito partire dalla propria battigia per poi farvi ritorno dopo aver pescato il necessario. Prendendo per buona questa ipotesi dunque, si tratterebbe di una sorta di giro dell’oca, un percorso fatto per avanzare, che però alla fine ti riporta sempre al punto di partenza oppure che ti fa raggiungere quello d'arrivo attraverso la strada più lunga.

10) "Cosa fatta, capo ha"

Proverbio toscano che Dante cita nel canto XXVIII dell'inferno con le parole "capo ha cosa fatta" (v. 107). Il poeta riporta la frase attribuita a Mosca dei Lamberti, che pronunciò il celebre motto durante una riunione indetta per uccidere Buondelmonte dei Buondelmonti.

La frase risoluta significa che un'azione, quando viene fatta, ha sempre un capo, ovvero un fine, uno scopo preciso, mentre l'indugiare non porta a nulla. Correva l'anno 1216 quando la giovane figlia di Lambertuccio Amidei venne abbandonata sull'altare nella chiesa di Santo Stefano al Ponte. Il suo promesso sposo, il nobile fiorentino Buondelmonte de’ Buondelmonti, non solo disertò le nozze, ma ebbe la sfrontatezza di entrare a Firenze passando da Por Santa Maria, proprio nei pressi della chiesa dove la giovane lo stava aspettando: un’offesa inammissibile, che la famiglia Amidei decise di lavare nel sangue. 

Buondelmonte venne così assassinato la mattina di Pasqua dello stesso anno, mentre si recava alle nuove nozze con una donna della casata Donati. Secondo la tradizione questo episodio di sangue fu la scintilla che scaturì le violente lotte tra guelfi e ghibellini, le due opposte fazioni che per due secoli si combatterono in un aspro conflitto. Lo stesso Dante nella Divina Commedia riporta questa versione, indicando la vendetta degli Amidei come causa primaria della rovina di Firenze e delle sanguinose lotte che la attraversarono durante il Medioevo.


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