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Opening: Italian Hours, la mostra alla Galleria Gentili

Pensata come un itinerario, una sorta di passeggiata rituale, Italian Hours presenta un deposito di immagini, un collage di segni, aditi ed esiti, in cui ogni punto è nodale, inaugura e allo stesso tempo sigilla.
Prendendo come pretesto il taccuino di viaggio in cui Henry James raccolse brani sull’Italia scritti in un arco di tempo di circa quarant’anni, dal 1872 al 1909 e, in particolare, le pagine dedicate a Firenze, la mostra oscilla di continuo tra le forme del distacco e il desiderio di possesso.

Un taglio visivo di genere tipicamente pittorico si impone là dove il passato, inteso come riappropriazione, sembra sopraffare la realtà e la rigida geometria fiorentina. Una semplice tonalità dell’atmosfera, le ondulazioni azzurrine di una certa lontananza, il giallo del fiume ma anche il colore delle colline, o gli affreschi consunti -dove gli scarni pigmenti fanno corpo con la grana del muro- diventano “piste indiziarie”. Insieme alla pietra patinata e alle tarsie marmoree, alle paste vitree dei racemi e alle volte narrate, annodano le fila del discorso e danno consistenza al vanificarsi nell’aria di dissepolte reliquie.

Ombre e imago persistono fisiologicamente nelle immagini retiniche legando strettamente tempo, memoria e finzione e costringendo lo sguardo ad un’attesa.
Il percorso espositivo di Italian Hours trasforma e ricompone l’immobilità del tema iconografico. Ogni istante, ogni immagine, ogni presenza anticipa virtualmente il suo svolgimento futuro e allo stesso tempo ricorda i suoi gesti precedenti.

Boboli: illustre esempio di giardino alchemico e frutto della sapienza ermetica della committenza. Un museo all’aperto, un’oasi, dal nome di origine oscura, chiusa con la sua consunta grazia dentro la città. Un cerchio incantato e abbandonato, in cui la mescolanza di ingegnosità, progettazione e casualità, abilità ed errore, ha prodotto una magica armonia.

“Qualcosa un tempo si faceva in quell’anfiteatro pieno di fascino e dimenticato - si faceva o si aveva l’intenzione di fare, - qualunque cosa fosse, voi statue mute, chi lo vide con i vostri occhi vuoti? Dalla parte opposta si innalza il palazzo immenso con il suo tetto piano, che spinge all’esterno due grandi bracci rettangolari e che con le sue finestre chiuse e il basamento di roccia appena sbozzata sembra quasi il fantasma di una delle austere architetture di Babilonia”-, scrive Henry James descrivendone l’anfiteatro.

Un debole sospiro di brezza e l’ineffabilità della traccia lasciata dall’ esperienza.
O meglio, l’eterno ritorno dell’identico.

Jessica Warboys (1977 Newport, Galles) vive tra Suffolk, (GB) e Berlino,(D) La sua pratica si articola tra film, pittura e scultura.
Tra le le mostre collettive a cui ha partecipato: dOCUMENTA 13 Kassel, Germania, Artists Film International, Whitechapel Art Gallery, Londra(2012), la 9ª Bienal do Mercosul, Porto Alegre, Brasile (2013), il British Art Show 8 (2016) e Surface Work, Victoria Miro, Londra (2018). Le sue mostre personali includono: Ab Ovo, Spike Island, Bristol (GB, 2013) Glade, Museum M, Leuven, Belgio, Ad Lib, State of Concept, Atene (2015), Angle Poise, Kunstverein Amsterdam, Allotropes, Casa Masaccio, San Giovanni Valdarno, Topo Scenic, Kunsthall Stavanger, Norvegia (2016), Hill of Dreams, Tate St Ives, Cornovaglia, (GB), Body Sleep, Gaudel de Stampa, Parigi (2017) e Echogap Towner, Eastbourne, (GB 2017). Film screenings e Performance : Prospectif Cinema, Centre Pompidou, Parigi (2015) Hill of Dreams, Tate Britain, Londra (2016) e Hoop Eye Dance Trance, CAPC, Bordeaux, (F 2017)


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